Editoriale di Nicola Porro sul Giornale
Per questo governo non siamo individui, persone, colleghi o, mettiamocelo pure, «compagni». No, siamo una sequenza di quindici caratteri alfanumerici, siamo un codice fiscale. Siamo dei contribuenti. Nel Dna di questo governo esiste un pericoloso virus, che in altre parti del mondo è stato debellato. I quattrini che i contribuenti guadagnano con il loro lavoro e con il loro ingegno sono res publica, sono roba dello Stato. E per gentile concessione qualcosa può rimanere nelle nostre tasche. Ieri Prodi ha confermato che non verrà ridotto il carico fiscale sui redditi delle persone fisiche. Ce lo aspettavamo. Ma il guaio è che ci stiamo abituando alla violenza fiscale.
Questa estate è andato in onda un dibattito surreale se fosse meglio ridurre pri-ma la spesa pubblica o prima le imposte. E nessuno ha obiettato che il fondamento della prima sono le seconde. Senza imposte non c'è spesa. È vero che i nostri governi sono stati fantasiosi nel posticipare il pagamento del conto: ma spendere ciò che non si ha in cassa è pur sempre applicare un'imposta sul futuro. Ebbene, si ritorna al virus.
A un governo che prevede di incassare dai cittadini, pardon contribuenti, 730 miliardi di euro, sfugge un dato banale. Ciò che viene lasciato nelle tasche dei contribuenti è ciò che essi possono liberamente spendere per i fattacci loro. Se davvero si ha la preoccupazione di tutelare il potere d'acquisto degli italiani, occorre aumentare il loro reddito disponibile, quello al netto delle ritenute fiscali. Quando si pensa agli stipendi da fame, raramente si ragiona sul fatto che se fossero rimpinguati da quanto trattenuto dal fisco, la fame sarebbe minore. È piuttosto necessario affamare la bestia statale. Non sta scritto in nessuna legge fondante la nostra società, e non si tratta di un principio di giustizia sociale, la circostanza che la burocrazia in Italia debba assorbire 1'11 per cento del Pil, pari a 170 miliardi di euro.
Sembra tutto ribaltato. Ci stiamo assuefacendo al virus. Ma come: passa un giorno e pure l'altro con l'annuncio di un nuovo tesoretto fiscale e nulla torna nelle nostre tasche? Ma come: le stesse statistiche del ministero dicono che la pressione fiscale reale per coloro che non evadono è superiore al 50 per cento del reddito e il premier non fa nulla per mitigàre questa nostra condizione di mezzadria fiscale?
È singolare il principio per il quale ogni giorno si chiede al contribuente un sacrificio fiscale e nel medesimo giorno in sua vece si sottoscrive una spesa. Occorre rompere questa ipocrisia. La spesa pubblica non è una spesa per i cittadini: è una spesa per la sopravvivenza di un apparato. Solo così si riesce a dare un fondamento sacrosanto all'unica manovra che è equo adottare in nome del popolo italiano: una riduzione choc delle imposte. Una restituzione immediata del maltolto.
Per questo governo non siamo individui, persone, colleghi o, mettiamocelo pure, «compagni». No, siamo una sequenza di quindici caratteri alfanumerici, siamo un codice fiscale. Siamo dei contribuenti. Nel Dna di questo governo esiste un pericoloso virus, che in altre parti del mondo è stato debellato. I quattrini che i contribuenti guadagnano con il loro lavoro e con il loro ingegno sono res publica, sono roba dello Stato. E per gentile concessione qualcosa può rimanere nelle nostre tasche. Ieri Prodi ha confermato che non verrà ridotto il carico fiscale sui redditi delle persone fisiche. Ce lo aspettavamo. Ma il guaio è che ci stiamo abituando alla violenza fiscale.
Questa estate è andato in onda un dibattito surreale se fosse meglio ridurre pri-ma la spesa pubblica o prima le imposte. E nessuno ha obiettato che il fondamento della prima sono le seconde. Senza imposte non c'è spesa. È vero che i nostri governi sono stati fantasiosi nel posticipare il pagamento del conto: ma spendere ciò che non si ha in cassa è pur sempre applicare un'imposta sul futuro. Ebbene, si ritorna al virus.
A un governo che prevede di incassare dai cittadini, pardon contribuenti, 730 miliardi di euro, sfugge un dato banale. Ciò che viene lasciato nelle tasche dei contribuenti è ciò che essi possono liberamente spendere per i fattacci loro. Se davvero si ha la preoccupazione di tutelare il potere d'acquisto degli italiani, occorre aumentare il loro reddito disponibile, quello al netto delle ritenute fiscali. Quando si pensa agli stipendi da fame, raramente si ragiona sul fatto che se fossero rimpinguati da quanto trattenuto dal fisco, la fame sarebbe minore. È piuttosto necessario affamare la bestia statale. Non sta scritto in nessuna legge fondante la nostra società, e non si tratta di un principio di giustizia sociale, la circostanza che la burocrazia in Italia debba assorbire 1'11 per cento del Pil, pari a 170 miliardi di euro.
Sembra tutto ribaltato. Ci stiamo assuefacendo al virus. Ma come: passa un giorno e pure l'altro con l'annuncio di un nuovo tesoretto fiscale e nulla torna nelle nostre tasche? Ma come: le stesse statistiche del ministero dicono che la pressione fiscale reale per coloro che non evadono è superiore al 50 per cento del reddito e il premier non fa nulla per mitigàre questa nostra condizione di mezzadria fiscale?
È singolare il principio per il quale ogni giorno si chiede al contribuente un sacrificio fiscale e nel medesimo giorno in sua vece si sottoscrive una spesa. Occorre rompere questa ipocrisia. La spesa pubblica non è una spesa per i cittadini: è una spesa per la sopravvivenza di un apparato. Solo così si riesce a dare un fondamento sacrosanto all'unica manovra che è equo adottare in nome del popolo italiano: una riduzione choc delle imposte. Una restituzione immediata del maltolto.