Se è la tua prima visita, ti ricordiamo di
controllare le FAQ .
Clicca invece su questo link per registrarti
se vuoi inserire messaggi all'interno del forum.
Una corda scese sinuosa. La afferrai fra gli spruzzi e dal ponte si levò un grido di incoraggiamento, sguaiato e scellerato, il cui fetore era un affronto al cielo.
Ho una domandina: le opere devono essere originali o possono essere anche fanfiction? E se possono essere ff, possono essere non dragonballesche?
Cosa intendi per "originali"? Mai apparse? Possono essere finzioni degli appassionati, ma ovviamente devono rispettar il regolamento. Puoi farle sia di Dragonball che di qualsiasi altro argomento.
Una mia vecchia one shot su Harry Potter! Ecco come ho immaginato la prima magia di Harry!
IL ROBOT E LE PATATINE
Era la vigilia di Natale, quella sera, al numero quattro di Privet Drive. La neve cadeva soffice sulle strade immacolate, le lampadine fissate il giorno prima da Vernon Dursley sul tetto della casa, brillavano un po’offuscate da un sottile strato di coltre bianca.
Anche l’interno della casa era tutto addobbato. Luccicanti ghirlande d’oro e globi rossi di vetro soffiato scintillavano un po’dappertutto, appesi alle porte, sulle pareti, sopra alle finestre.
La famiglia era riunita in salotto, tra il caminetto acceso e un maestoso albero di Natale, pieno di fiocchi, globi colorati e ghirlande.
Un bambino biondo e grassoccio che non doveva avere più di sei anni, stava scartando il suo quarto regalo.
“Un robot!” esclamò il bambino contento, premendo il pulsante blu sulla cintura del giocattolo. “AN-DIA-MO- A –CON-QUI-STA-RE- ZE-NOT” sillabò il robot con la sua voce metallica.
“Si Diddy! Ti piace?” chiese la madre accarezzandogli i capelli biondi perfettamente pettinati.
Dudley non rispose, ma lanciò il giocattolo sopra la bicicletta nuova e afferrò un pacchetto informe. Strappò via la carta e ne tirò fuori un maglione rosso con ricamato sopra un pupazzo di neve.
Il bambino lo guardò per qualche secondo, poi scoppiò a piangere gridando come una sirena.
“Tesoro della mamma… Cosa c’è che non va?” chiese Petunia, quasi spaventata dal pianto del figlio che ululava col viso rosso bagnato dalle lacrime.
In quel momento un altro bambino entrò in salotto. Doveva avere più o meno la stessa età di Dudley, ma era molto più piccolo e mingherlino. I capelli corvini gli ricadevano disordinati sulla fronte, sulla quale spiccava una cicatrice dalla curiosa forma di saetta. Sotto gli occhiali tondi brillavano due scintillanti e tristi occhi verdi.
Nessuno fece caso al bambino che andò a sedersi proprio dietro all’albero di Natale, dove c’era un piccolo pacchetto avvolto in una carta verde tutta stropicciata. Il bimbo lo raccolse silenziosamente e aprì il biglietto attaccato con il nastro adesivo.
“P… peee…r Haa..rr…y. Per Harry” lesse con l’incertezza del bambino di sei anni che era.
“NON LO VOLLIO! NON GLIELI HO CHIESTI I VESTITI A BABBO NATALE!” gridò intanto Dudley dimenandosi tra le braccia del padre col viso tutto bagnato dalle lacrime e dal moccio.
“Dudders non piangere! Domani papà ti compra un altro gioco al posto di questo!” promise Vernon purchè il piccolo la piantasse di gridare come un ossesso e finisse di imbrattare col moccio la sua giacca nuova.
Dudley gridò ancora più forte “IO IL REGALO LO VOLLIO DI BABBO NATALE, NON TUO!”
Il bambino dai capelli neri alzò gli occhi verdi dal pacchetto e li posò sul cugino, in preda all’ultimo dei suoi capricci. La sua espressione era seria, triste, delusa, arrabbiata. Assolutamente fuori luogo in un bambino di sei anni la sera di Natale.
Harry sentì le lacrime pungergli gli occhi e si strofinò gli occhietti con le mani.
“HARRY!” tuonò zia Petunia. “Cosa ci fai in piedi a quest’ora? Apri quel pacchetto e fila subito a letto, se non vuoi finire in punizione fino a carnevale!” gridò istericamente sovrastando il pianto del figlio.
Harry trasalì spaventato. Sapeva bene che la zia era particolarmente irritabile durante i memorabili capricci di Dudley e, trattenendo la sua rabbia col figlio, la scaricava spesso su di lui. “Si, zia Petunia”
Il bambino scartò di malavoglia il pacchetto. Conteneva un sacchetto di patatine. Non era poi così male considerando che l’anno prima aveva ricevuto il depliant della fabbrica di trapani di zio Vernon, con tutte le offerte speciali per Natale.
Harry fece un piccolo sorriso e aprì il pacchetto, facendo finta di non sentire i pianti del cugino e le voci premurose degli zii.
“Ti compreremo anche il compagno robot di questo, va bene? Fai il bravo bambino, non piangere!” disse zia Petunia con una vocetta tutta gnè-gnè.
“AN-DIA-MO- A –CON-QUI-STA-RE- ZE-NOT” ripeté il robot quando la donna premette il pulsante sulla sua cintura, nella speranza di distrarre il bambino.
Intanto Harry aveva cominciato a mangiarsi tranquillamente le sue patatine, seduto sul tappeto.
“VOLLIO QUELLE!” gridò all’improvviso Dudley con il dito grassoccio puntato verso le patatine del cugino.
“No, queste me le ha portate a me, Babbo Natale” rispose ingenuamente il bambino stringendo il pacchetto tra le manine.
“Non mi interessa! Sono mie, DAMMELE!” ordinò Dudley alzandosi in piedi e asciugandosi il viso con la manica del maglione.
Vernon Dursley osservava incerto la scena. In teoria Babbo Natale aveva portato le patatine a Harry. Se avesse detto al nipote di darle a Dudley, sarebbe come stato dire che Babbo Natale non esisteva. D’altro canto se avesse detto al figlio di lasciar stare Harry, avrebbe gridato tutta la sera. La soluzione migliore era far finta di niente.
“No” rispose intanto Harry cercando di mostrarsi coraggioso, quando aveva solo voglia di scappare via.
Dudley si gonfiò tutto e si lanciò in avanti cercando di stappare il pacchetto dalle mani del cugino, che però riuscì a schivarlo. Ancora sbilanciato in avanti, Dudley si inciampò sul tappeto e cadde a terra con un tonfo.
Zia Petunia e Zio Vernon si alzarono in piedi di scatto.
“Oh, Diddy! Amore! Ti sei fatto male?” gridò Petunia prendendo tra le braccia ossute il figlio, che nel frattempo aveva ripreso a strillare.
“V-voglio le patatineeee” singhiozzò Dudley, ben sapendo che la madre non avrebbe saputo dire di no ai suoi occhi pieni di lacrime.
Il piccolo Harry strinse forte il pacchetto. Non era giusto! Dudley riceveva molti più regali di lui anche se non faceva il bravo bambino. Babbo Natale aveva portato a lui quel sacchetto di patatine, non a Dudley. C’era scritto anche sul biglietto.
“Mammaaa! Harry mi fa sempre piangereee!” frignò il bambino tra le braccia della madre.
Questo era il limite. “Piangi merenda, sotto la tenda…” canterellò una vocetta tranquilla ma decisa. “Sotto il tendal…” SBAM! Un violento pugno di Dudley colpì in pieno il cugino sulla guancia.
Stavolta fu Harry a scoppiare a piangere. “AHIAAAA!” strillò il bambino con gli occhi pieni di lacrime, premendosi le mani sulla guancia destra che nel frattempo era diventata tutta rossa.
Non trovando nient’altro da fare, Dudley si unì al pianto del cugino, provocando un baccano terribile.
“BASTA COSÍ!” Sbraitò all’improvviso zio Vernon, sovrastando gli strilli dei due bambini.
“TU! Devi sempre provocare disastri!” gridò l’uomo contro il nipote.
“Considerati in punizione!” lo strapazzò zia Petunia.
“E dagli quelle patatine, non te le meriti!” ordinò zio Vernon, cogliendo l’occasione per accontentare il figlio.
“Ecco dammele, faccia di purè!” gli fece verso Dudley.
Harry cominciò a respirare affannosamente, arrabbiato. Perché era tutto così ingiusto? Perché Dudley aveva sempre ragione e lui sempre torto? Perché non viveva con la mamma e il papà come tutti i bambini? Perché non poteva mai fare domande? Perché a nessuno importava di lui? Perché doveva dare a suo cugino il regalo che Babbo Natale aveva dato a lui? Perché non poteva dire a Dudley quello che pensava di lui??
“DUD-LEY DUR-SLEY È UN BAM-BI-NO STU-PI-DO E CAT-TI-VO. SEM-BRA UN POR-CEL-LI-NO CON UN PAR-RUC-CHI-NO IN TES-TA E FA-REB-BE BE-NE A BUT-TAR-SI DEN-TRO LA TAZ-ZA DEL GA-BI-NET-TO!”
Harry, come tutto il resto della famiglia, sgranò gli occhi incredulo verso il robot che si era acceso all’improvviso, recitando precisamente quello che c’era nella sua testa.
“Ma cosa…?” farfugliò zio Vernon allibito guardano il giocattolo come se fosse una mucca viola.
“DUD-LEY DUR-SLEY FA-REB-BE BE-NE A NON MAN-GIA-RE LE PA-TA-TI-NE DEGLI AL-TRI, SE NON VUO-LE AS-SO-MI-GLIA-RE AN-CO-RA DI PIÚ AL-LA BA-LE-NA DI PI-NOC-CHIO!” riuscì a sillabare il robot prima di essere spento velocemente da zia Petunia.
Dudley sembrava incapace di dire nulla, Harry aveva la bocca così spalancata da mostrare perfettamente il piccolo molare che cresceva in fondo al palato. Inspiegabilmente zio Vernon e zia Petunia osservavano Harry terrorizzati. Ma il bambino non se ne accorse e una volta ripresosi dalla sorpresa, fece l’ultima cosa che avrebbe dovuto fare in quel momento: scoppiò a ridere.
“TU! GUAI A TE SE FAI ANCORA UNA COSA SIMILE IN CASA MIA!” muggì all’improvviso zio Vernon, con la vena violetta sulla tempia che pulsava minacciosamente. Harry smise all’istante di ridere. “FUORI! Fuori di qui! E NON USCIRE DAL RIPOSTIGLIO PRIMA DI PASQUA!” gridò l’uomo sputacchiando.
Harry non se lo fece ripetere due volte e se la filò nel ripostiglio del sottoscala, per poi chiudersi dentro con due giri di chiave.
Il bambino si accucciò sul materasso scricchiolante del suo lettino tremando come una foglia. Ma cos’era successo? Perché all’improvviso il robot aveva detto quelle cose su Dudely? Harry non riusciva proprio a spiegarselo. A meno che… Ma si, certo! Come aveva fatto a non pensarci subito? Era stato Babbo Natale! Ma certo! Aveva punito Dudley per essersi comportato male, infondo quel robot l’aveva costruito lui!
Harry sorrise. Dal salotto provenivano le grida furiose di Zio Vernon e il pianto di Dudley, ma non gliene importava. C’era infondo qualcuno al mondo che gli voleva bene.
*FINE*
sigpic "(...) Ogni dolore nasconde una gioia e ogni fine un principio (...)"
Premetto che sono tre pagine word times new roman 11 prese dal libro che sto scrivendo. Non finisce qui la storia, ma continua. Mi sono fermata in un punto dove tutto può essere compreso.
Giovane Cenerentola
I patti erano molto chiari: tu pulisci, se vuoi vivere; noi meritiamo di divertirci perché manteniamo te.
Sì, come no.
Salii per le scale con le gambe doloranti, mentre queste parole mi ritornavano in mente e si mescolavano con le altre stupide frasi che mi venivano dette ogni giorno, creando un miscuglio confuso di rabbia. Giù in cucina, il cucù stava starnazzando per annunciare la mezza notte. Non si stanca mai, mi dicevo da piccola, quell’uccello è magico. All'epoca mi piaceva fantasticare come tutti i bambini. Magia...Se fosse esistita, mi sarebbe stato d'aiuto in quel momento.
Mi diressi verso quella porta che sembrava il cancello di una cella nel carcere dove tengono la gente pericolosa, e lentamente abbassai la maniglia. Di fronte a me, la mia stanza mi appariva come un paradiso terrestre. Stanza. L'ho sempre chiamata così. In realtà non era che una polverosa soffitta dimora di ragnatele e sporcizia incrostata dappertutto. Chissà perché i miei amici topi non erano affamati, quella notte.
Mi buttai su quel letto imbottito di paglia al posto del materasso. Non era male, sempre meglio che dormire sulle molle spoglie...Mi era costato il lavoro di cinque ore supplementari, quello stupido letto, e per avere una maglietta usata ( e mezza stracciata) dovevo pagare il tributo di pulizia degli scaffali ogni giorno. Troppo cara: mi tenevo a stento sulle gambe.
Fuori dalla finestra, il cielo era colmo di nuvole nere cariche di pioggia, così da sembrare che minacciassero di scagliare le loro frecce gialle e luminose nel bosco. C'era un'aria leggera che profumava d’erba, di semi e di frutti, di muschio e di fragole. Solo una volta avevo assaggiato le fragole, e da allora me n’ero innamorata.
Ora le gocce di pioggia picchiettavano sui tetti di quelle casine basse scarsamente illuminate da un vecchio lampione, ed entravano nella soffitta andando a depositarsi leggermente sul mio viso. Tutto d’un tratto mi sentii leggera, fresca come una rosa, le membra rilassate di chi si sveglia dopo un tranquillo sonno. Era come se la stanchezza fosse svanita e si stesse spegnendo come la luce ormai fioca del lampione. Lasciai che l'acqua mi lavasse le fatiche, che la brezza profumata mi accarezzasse e mi restituisse il sorriso. Pochi minuti dopo, la pioggia si fece più intensa e il venticello dolce sembrò trasformarsi in una violenta tromba d'aria.
Come una freccia scoccata da un abile arciere, il vento colpì l'armadio malandato che stava sulla mia destra e spalancò le sue ante facendo cadere una pila di vestiti. Io chiusi la finestra e abbassai la veneziana. Intanto, nella distesa scura del cielo, i fulmini si intrecciavano rabbiosi e, dopo una continua lotta, uno di loro cadde e andò a finire nella foresta, lasciandosi dietro un enorme bagliore accecante che illuminò mezzo paese.
Quella notte non dormii bene. L'aria penetrava attraverso i fori del soffitto e mi soffiava nelle orecchie che disperatamente cercavo di proteggere con due ciuffi di paglia. Il temporale non era ancora cessato. Sentivo i tuoni rimbombare nel vuoto e le gocce ticchettare nelle pozzanghere colme. L'atmosfera era tutta ovattata e le mie orecchie non udivano altro che le chiome degli alberi danzare con il canto del vento.
Nel frattempo, mentre mi giravo e rigiravo nel letto, mi sembrò di sentire una voce chiamarmi a sé, stringendomi in un abbraccio affettuoso, come le coperte proteggono l'uomo dal freddo. Arianna, Arianna, Arianna! Non sapevo da che parte guardare e, non avendo a disposizione altri fiammiferi, finii per arrendermi, ma non scordai mai quella voce dolce che mi cullava tra le sue parole.
Come al solito mi svegliai all'alba, molto prima dei miei cugini. Su nell'alto cielo, la luna si preparava a tramontare, a sparire dietro quelle nuvole bianche come pezzi di cotone dispersi nell'azzurro macchiato di rosa. Pian piano la vita si ridestava sugli alberi, nei prati, sotto terra. Uccelli variopinti si libravano nell'immensità celeste per salutare il mondo che lentamente si svegliava da un sonno tranquillo.
Era meraviglioso sentir cantare gli uccelli, proprio quando i raggi del sole si facevano spazio tra le nuvole e l'azzurro si faceva più intenso. L'insieme di questi eventi mi rallegrava, ma era allegria che non mi avrebbe aiutato nelle ore successive.
Lasciando quello spettacolo splendido e unico, scesi dal letto e presi un pezzo di specchio dal mio comodino rotto. Vidi la mia immagine riflessa nello specchio: due occhi tristi di un pallido verde tendente all'azzurro, un viso stanco e consumato dalla fatica, un naso né corto né lungo, le labbra sottili, rosse e screpolate. Una ciocca di capelli invadente mi copriva la fronte e il suo colore contrastava con quello della mia pelle olivastra (per la sporcizia). I capelli avevano un colore confuso, coperto di sporcizia incrostata anche sulle orecchie. Con una lavatina, forse sarebbero stati biondi. Pensai che fosse quello il colore dei miei capelli, ma non mi era permesso di sprecare tanta acqua per ripulirli.
Oltre allo specchio, sul comodino c'era anche una foto: l'unica che avevo dei miei genitori. Questi ultimi erano scomparsi nove anni fa. Partendo senza di me per una vacanza, erano stati sorpresi da una tempesta che travolse la nave da crociera e li abbandonò negli abissi. Non fu ritrovato mai il corpo di qualche vittima, nessun indizio: erano come disciolti nell'acqua. Ma io speravo che in qualsiasi posto si trovassero fossero sani e salvi. Le mie speranze oramai erano inutili. Dovevo smettere di sperare e sperare come i bambini.
Quella foto a colori era il mio unico e vero gioiello. A sinistra c'era mio padre, un uomo alto dal fisico atletico, i capelli neri e gli occhi scuri, e un sorriso abbagliante che si notava al primo sguardo. Alla sua destra stava una donna alta e slanciata, con lunghi capelli biondi e ricci e gli occhi grandi e azzurri, un sorriso splendente.
Mi stupiva la bellezza e l'allegria dei loro volti. Erano vestiti molto elegantemente: mio padre indossava un paio di jeans blu e una camicia bianca sbottonata nel mezzo, mia madre, invece, portava un lungo vestito blu brillante. E là nel centro, nascosta da un cagnolino buffo, c'ero io. Bionda, occhi azzurri, le labbra rosa come le fragole. Sorridevo anch'io, un sorriso che sembrava più una risata felice, mentre con la mano destra accarezzavo le orecchie del piccolo amico. Dietro di noi, una sontuosa villa ricopriva lo sfondo, emergendo tra aiuole colme di fiori e i prati curati del giardino. Dovevo essere una bimba ricca, come manifestavano il mio vestito rosa costoso, i gioielli di mia madre e la villa gigantesca.
In quel momento, i miei ricordi cominciarono a riportarmi indietro nel tempo.
Eravamo in una stanza, tutti e tre. Nella stanza da letto, precisamente. L'orologio segnava le otto e mezza, il momento che tanto attendevo si avvicinava: la mezz'ora della storia. Mio padre si stava sfilando la camicia per mettersi il pigiama, mentre mia madre spogliava me. Ed io facevo in fretta a togliere tutto; il cuore mi batteva forte nel petto e per l'emozione mi si arrossava il viso. Una fiamma arancione danzava sulla cima della candela posta in fondo alla camera. L'avevo messa io la candelina, per segnare un evento per me importante: mi avrebbero raccontato una bella storia, Cenerentola.
- Cenerentola era una bella ragazza che viveva con la matrigna e le sue due sorellastre - raccontò papà.
- Cos'è una matigna?- chiesi confusa con la voce stridula.
- Matrigna, matrigna! Non matigna, amore - sorrise lui arruffandomi i capelli. Io ridevo mettendo le mani chiuse a pugno sulla bocca.
- E poi e poi? -.
Ero impaziente. Papà raccontava così bene le storie che io mi sentivo risucchiata dalle sue parole alternate a sorrisi, risate e le carezze di mamma. Ascoltavo attentamente la fiaba, silenziosa. Si sentiva appena il fuoco consumare la legna del camino.
Quando papà finì di raccontare, mancavano cinque minuti alle nove. Ne approfittai per rivolgere domande.
- Papà, papà! -.
- Sì, amore, che c'é?-.
- Come si chiamava la topolina che aiutava Gas Gas e gli altri a fare il vestito? -.
- Tesoro, non lo so -.
Mi accarezzava i capelli lanciando dolci occhiate alla mamma.
- Uffa, papà! Sei già vecchio e non ricordi niente? -.
- Vecchio io? - fece lui fingendosi arrabbiato e incrociando le braccia al petto. - Chiedi a tua madre quanti anni ho-.
Mamma mi sorrise dolcemente. - Ventitrè, tesoro. E' giovane, tuo padre -.
- E' poco ventitrè, mamma? -. Facevo segno con le dita, cercando di contare.
- Dipende da come intendi, Arianna - rispose lei. - E' più vecchio di te, ma per avere una bimba di quattro anni è giovane-.
- Capito...- mormorai. - E tu quanti anni hai? -.
- Ventidue -.
-Sei più piccola? -.
- Sì -.
Lei si era voltata con il viso verso papà per il bacio della buonanotte. A me non andava giù l'idea che si baciassero loro due da soli, perciò mi intromisi e baciai le loro labbra incollate le une alle altre e misi le mani sui loro capelli. Scoppiarono a ridere e mi buttarono per gioco sul letto. Poi papà mi raccolse e mi mise tra le braccia di mamma. Automaticamente io le posai le braccia intorno al collo, le gambe piegate sulla sua vita.
- Scimmietta - esclamò lei dandomi un buffetto.
- Allora proprio non lo sapete, il nome della topolina!-. Ancora non mi davo pace.
Mamma lanciò un'occhiata di rimprovero a papà. - Alexander, cerca di ricordartelo, la prossima volta. Io ho solo letto la favola, tesoro. Tuo padre ha visto anche il cartone animato. Questo libro è nella versione Disney -.
Lui si mise una mano tra i capelli, un po' scocciato. - Ma insomma, Victoria, non me lo ricordo!-.
Stavamo entrando nella mia stanzetta. Le pareti lilla dai grandi fiori bianchi mettevano allegria a chiunque si lasciasse incantare da quei colori. Nel centro della camera c'era un letto a forma di cuore e sopra tre mensole cariche di peluche.
- Non voglio dormire da sola! - brontolai.
- Ma non dormirai da sola, tesoro - mi consolò mamma indicando un orso gigante dalla folta pelliccia. - C'è Tfinkie con te -.
- Sì! Tfinkie! -.
Mi sorrisero entrambi.
- Ora dormi, Arianna - disse papà, seriamente. - Buonanotte, piccina -.
Ricevetti baci sulla fronte e sulle labbra, e li guardai uscire tenendosi per la vita.
E così uscirono dalla mia vita: lentamente, prendendosi per mano, ed erano abbracciati chissà dove, ma era certo che fossero vivi, sani e ancora innamorati.
Dopo la loro scomparsa fui affidata alla nonna, che morì quando passò una sola settimana dall'accaduto. Fui perciò affidata ai miei cugini con sui vivevo da nove anni.
Sembrava di stare nella storia di Cenerentola: Emma e Elena erano le sorellastre, Marco la “matrigna”, io Cenerentola, e il principe azzurro? Quello no, non esisteva. Forse Tfinkie sarebbe stato adatto.
La mia situazione era identica, o forse peggio di quella di Cenerentola.
Comment