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Regia. Il Mio Racconto.

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  • Regia. Il Mio Racconto.

    Ecco qui il famoso racconto... chi ha piacere di leggerlo e di darmi un suo critico e sincero giudizio mi farà un gran favore.

    Attenzione ricordo una cosina; critico e sincero giudizio non vuol dire prendermi in giro o umiliarmi...

    Prologo


    “Benvenuti al notiziario delle venti, iniziamo subito collegandoci con...”. Recitava un vecchio Philips, posto su un’altrettanto vecchio mobile, quando un signore parecchio anziano barcollando portò la rotella su “Off”.
    La stanza prima illuminata dal televisore divenne improvvisamente buia, il vecchio tuttavia riuscì a risedersi; il luccichio del suo sigaro appena iniziato e il leggero fumo che esso emetteva gli indicarono la strada; si sedette.
    «E così, ancora non perdi tempo per umiliarmi…» disse a voce bassa il vecchio facendo disperdere per la stanza una grossa boccata di fumo. «Perché proprio io?… Perché proprio io!!»
    Si alzò, mentre il terminare delle sue parole insensate invadeva la stanza d’un angosciante silenzio; ma non ebbe la forza; si risedette, per poi cercare senza farcela di trattenere il suo pianto.
    «Ho rinunciato a tutto per te facendo della tua legge un fardello» disse non appena s’asciugò il viso con lo sguardo perso nell’oscurità. «E tu… E tu! E tu mi hai ripagato con l’indifferenza più atroce. Ti ho offeso, è vero; però… però ero cambiato. Cercavo in te il perdono. Un perdono che non ho mai ricevuto; anche se… anche se mi avevi fatto credere il contrario! Che illuso… Ma non importa. No, non ha importanza; sarai tu a concedermi quella giustizia che mi hai sempre negato; sarai tu a sostenere quelle braccia che mai hai sostenuto. Lo giuro.»
    Alla sua destra intanto la luce proveniente dalla stanza adiacente formava sbattendo nell’unica porta un rettangolo perfetto; l’uomo s’alzò nel buio, lasciando cadere il mozzicone del sigaro a terra. Tirata giù la maniglia con delicatezza, davanti ad egli, lungo il corridoio che dava accesso alle dodici stanze di cui si componeva il suo spazioso appartamento, una donna sui cinquantacinque anni di piacevole aspetto rassettava alcuni cassetti del piccolo comò posto sul lato destro del corridoio.
    La Donna sorrise leggermente, il vecchio non ricambiò.
    «Quando ritornerai da tuo marito e dai tuoi figli?» Chiese, come se si fosse dimenticato della presenza della donna.
    «Non me n’andrò mai da qui senza di voi, Padre» Rispose la donna.
    «Non verrò mai da te, lo sai benissimo perché sei rimasta?» Replicò il vecchio; i suoi occhi s’inzupparono nuovamente.
    «Perché non volete venire, cosa vi abbiamo fatto… per voi esiste solo vostro figlio!»
    «No, figlia mia, non ho nulla contro di voi, ma il mio posto e qui, tanti anni fa ho iniziato molte cose, mi sono illuso; ora devo completare, devo finire ciò che ho iniziato» Rinnovò il vecchio.
    «Non mi piace come parlate! Non mi piace per nulla! Ci sono i vostri nipoti, ci sono io, avete delle responsabilità nei nostri confronti» proruppe la donna.
    Il vecchio non replicò, chiuse le palpebre facendo scomparire i suoi occhi gonfi e maledettamente arrossati, poi emise un lungo sospiro, come a voler suggerire che parlare era inutile.
    «Volete che vi prepari il letto?» Chiese ora la figlia consapevole di tutto.
    «Il letto? Oh no, non potrei dormire» Osservò il vecchio, avviandosi verso ella. «Ma questa non è una novità… da molti anni ormai non dormo».
    «Da quanto?» Chiese la figlia facendosi cadere una lacrima a terra, quasi di proposito.
    «Molto, molto tempo. Troppo, a dire la verità» Rispose il vecchio lasciandosi alle spalle la figlia.
    Se l’era chiesto fin da, quando erano usciti dal tribunale di Nicosia alcune ore prima; ora tutto prendeva forma scoprendo che le sue paure e le sue domande in fondo erano certezze. Ma era troppo tardi per fare prediche, e forse, pensò la donna, era giusto così:
    «E’ chiusa a chiave» osservò la donna, guardando il padre affannarsi nell’aprire la porta che dava a quella che doveva essere secondo alcuni la sala da pranzo.
    «Perché?» Indispettito non poco chiese il vecchio.
    «Voglio esserci io questa volta» Rispose la donna consegnando una semplice chiave d’ottone al padre.
    «Potrebbe essere pericoloso» aggiunse l’anziano padre.
    «Non m’importa, non voglio che nessuno mi racconti nulla» replicò la donna.
    «Giorgia, Elisa? Che faranno senza te?»
    «Lo so, ma le mie figlie sono grandi, non corrono nessun pericolo» rispose la donna.
    «Come tu sai che non puoi fermarmi, anche io non ti fermerò» proferì il vecchio.
    Aperta la porta, il vecchio s’indirizzò verso l’unico quadro della stanza; la luce bassa che proveniva dal corridoio non permetteva di vedere cosa riproducesse, ad egli in ogni caso non interessava affatto. Prese il quadro con entrambi le mani e lo poggiò sul vicino tavolo; ora visibile, il quadro raffigurava quattro fanciulli con i visi tramortiti dalla fame, nelle piccole mani rinsecchite tenevano una tazza; aspettavano del cibo, probabilmente.
    «Gli assomiglia tanto quel bimbo…» proferì la donna guardando il quadro.
    «Il più piccolo, vero?» Aggiunse il vecchio. «Ma come si può scomparire nel nulla! Come!?»
    «Ormai sono passati così tanti anni…» Osservò con grande tristezza la donna.
    «Sai, certe volte lo odio solo per il semplice motivo d’essere nato. Se non fosse nato, non l’avrei pianto…» esternò il vecchio mordendosi le labbra.
    «Non dite così…» replicò la donna. «Era pur sempre vostro nipote, figlio di vostro figlio».
    «…sangue del mio sangue» aggiunse il vecchio. «Ma è inutile parlarne, soprattutto, quando si tratta di sangue morto».
    «La colpa non è sua; lui era solo un’innocente. Sua madre c’è l’ha tolto… come se noi non fossimo nessuno. E infine quella maledetta guerra che se li è portati via».
    «Sua madre ha fatto bene a portarselo via, solo oggi mi rendo conto che gli ha risparmiato una vita di pianti e nient’altro.»
    «Forse; ma almeno oggi sarebbe vivo»
    «E tu che ne sai!?» Pieno d’ira esclamò il vecchio. «Meglio morire a quell’età, in cui non sei cosciente di nulla; che morire quando hai assaporato i pochi piaceri della vita.»
    «Vi sbagliate…» allo stremo del dolore osservò la donna.
    «Perché c’è stato forse qualcuno che non ha pagato a nome mio!?»
    Non susseguì nessuna replica: la donna rimase in silenzio, appoggiata di fianco al battente della porta, intenta solo ad osservare il padre.
    Dietro il quadro, una piccola cassaforte. L’uomo benché la stanza non fosse per nulla illuminata, se non dalle luci che provenivano dal corridoio, riuscì ad aprirla; da essa fece venire fuori una scatola. Si sedette e la aprì con riguardo, dentro vi trovò una Revolver 442 e un piccolo contenitore in cui vi erano una ventina di proiettili. La smontò, la pulì, e rimontata ne caricò il tamburo interamente; sei colpi.
    «Prendetemi il mio mantello, è nella camera in cui dormo; vi aspetto in macchina» disse uscendo dalla stanza.
    La donna che nel frattempo si era appoggiata sulla porta, si precipitò nella camera del padre; dentro vi era un letto singolo, un comodino e un discreto armadio, dove vi trovò la mantella e in giro per la piccola stanza appese al muro alcune foto che ritraevano sempre due uomini. A differenza di tutta la casa, la stanza da letto era scarna e dai toni stranamente spartani.
    «Aspettatemi papà. Non fatemi scendere le scale da sola» gridò la donna, nel prendere il mantello.
    Non ricevette nessuna risposta; il portone che dava alle scale era già aperto.
    Senza indugiare uscì dall’appartamento ritrovandosi nella piazzetta d’entrata. Da sotto, i passi del padre risuonavano per le scale, li ascoltò uno dopo l’altro, poi, quando si sentì il tonfo del portone d’ingresso, incominciò anche ella a scendere.
    Aperto e chiuso il largo portone in ferro si ritrovò nel piazzale della casa, a pochi passi dentro una FIAT 500 C nera, il padre sembrava aspettarla con impazienza.
    Il sole era già calato da un pezzo, nel cielo gl’ultimi rossori andavano scomparendo, il vento settembrino annunciava la fine della stagione estiva.
    «Guida tu; portami in chiesa» Proferì il vecchio, lasciando il posto di guida alla figlia.
    «Quale chiesa?»
    «Alla chiesa del Carmelo».
    Fatta un poco di strada, la FIAT 500 che veniva da Via Palermo imboccò Via Roma, lasciandosi alle spalle la deserta Piazza delle Palme. Mancavano poche decine di metri al quartiere che i regalbutesi chiamavano “U Carminu” in onore dell’antica Chiesa della Madonna del Carmelo.
    «Cosa devi fare?» Chiese la donna, non appena arrivati a destinazione.
    «Aspettami in macchina» Rispose il vecchio scendendo dall’automobile.
    «Ma cosa dovete fare?»
    «Devo confessarmi» Rispose l’anziano uomo, per poi salire con calma la scalinata della chiesa.
    Tutto il quartiere era silenzioso, in lontananza si sentivano le voci di un’allegra famiglia che quasi certamente si preparava a cenare; il vecchio fece uscire dal suo mantello il braccio destro e con forza aprì il grosso portone in legno dell’entrata principale.
    Dentro, il profumo di mille odori gli fecero intuire che la messa era finita da pochi istanti. Non perdendo tempo s’indirizzò verso la navata centrale.
    «Beneditemi, padre!» gridò l’uomo facendo echeggiare la sua voce più volte all’interno del grande edificio.
    Prete Vattiato non ci mise un attimo ad uscire della sua sagrestia e a mostrarsi all’uomo.
    «Ditemi buon uomo, cosa posso fare per voi?» Chiese rispettosamente.
    «Voglio la vostra benedizione, padre» rispose il vecchio.

  • #2
    Ecco il preseguo del prologo del mio racconto.

    Il prete non aprì bocca. Poi, passati alcuni attimi di silenzio, con la mano fece cenno di seguirlo. Entrarono entrambi nella sagrestia.
    «Ditemi. Vi ascolto» Riprese a dire Padre Vattiato, mentre faceva cenno al vecchio di sedersi.
    «Fra poco farò del male giusto. Fra poco un uomo cadrà ai miei piedi; voglio che benedite la mia persona e il mio gesto»
    «Non esiste male giusto…» quasi spaventato osservò Padre Vattiato, ma per nulla intimorito.
    «Oh, sì che esiste» aggiunse il vecchio.
    «Non mi è dato benedire nessun gesto del genere; mi dispiace» ribadì Padre Vattiato.
    «Esigo la vostra benedizione, padre.» Affermò il vecchio.
    «I vostri occhi sono marcarti dal dolore cosa vi è successo?» Chiese padre Vattiato.
    Il vecchio rimase in silenzio per alcuni secondi; sembrarono interminabili per entrambi.
    «Raccontatemi di voi» Riprese a dire il parroco. «C’è sempre tempo per pentirsi».
    «Vi racconterò di me solo perché è mia intenzione farlo» disse il vecchio, mentre accarezzava la sua Revolver 442 all’insaputa del prete.
    “Avrò la tua benedizione” si disse fra se prima di cambiarsi in volto, il vecchio.

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    • #3
      Ciao Regia...Hai per caso cambiato kualkosa nel tuo racconto...???...L'ho riletto e a me sembra diverso...

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      • #4
        E' uguale.
        Comunque non credo tu abbia letto nè il primo nè questo...

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        • #5
          Originariamente Scritto da Regia.
          E' uguale.
          Comunque non credo tu abbia letto nè il primo nè questo...

          Nn iniziare le critiche x favore...La pensi cosi...???...Si...???...Allora pensala come vuoi...

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          • #6
            se sei ritornato per fare polemica non postare nei topic che apro io.. nessuno te lo impone.

            e per piacere non postare più nei miei topic, non si può rovinare ogni topic che apro per colpa tua.
            E cmq chesia chiaro non credo che tu abbia letto il mio scritto, di questo sono sicuro al 101% e non lo dico per flammare, ma solo perchè è quello che penso in tutta onostà.

            Last edited by Regia.; 21 April 2005, 00:45.

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            • #7
              Non ricominciate a offendervi e a litigare !!!!!!
              Comunque come prologo è un discreto abbozzo, forse devi un po' contestualizzarlo meglio, ma per il resto può stare in piedi; bisogna vedere come evolve poi la storia per esprimere un parere completo.
              "Una cantante di merda che frequenta un cantante di merda per la proprietà transitiva può solo continuare a produrre musica di merda"
              Casper su Tatangelo&D'Alessio

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              • #8
                Ciao Regia !
                Prima di tutto un plauso lo meriti per il fatto di scrivere ed avere il coraggio di chiedere un giudizio (.. io ho scritto parecchio, ma mai lo farei leggere a persona vivente ... animale vegetale o minerale ! ) !!

                Veniamo alle critiche sul prologo :
                - Lo ammetto, mi incuriosisce il seguito ... ma io nn conto sono curioso di natura

                - Benchè il movimento dei personaggia sia ben delineato, ritengo che manchino totalmente le descrizioni fisiche dei personaggi e delle ambientazioni ... tant'è che nella mia mente vedevo muoversi i personaggi con le facce dei miei colleghi di lavoro ... e ti assicuro che questo da poca credibilità al racconto !

                - Sono perplesso, poi, da alcuni termini che hai utilizzato e da alcune incorenze: per esempio la donna ogni tanto si riferisce al padre col "VOI" e altre volte col "TU".

                ... Queste sono gli aspetti più evidenti che ho notato ....

                ... Tieni presente che questo è un Flat's Pensiero ... merito ...
                Gaute la Nata !!! ... E ma Ziovà ... Beivvvv !!!

                Comment


                • #9
                  Originariamente Scritto da flat
                  Ciao Regia !
                  Prima di tutto un plauso lo meriti per il fatto di scrivere ed avere il coraggio di chiedere un giudizio (.. io ho scritto parecchio, ma mai lo farei leggere a persona vivente ... animale vegetale o minerale ! ) !!

                  Veniamo alle critiche sul prologo :
                  - Lo ammetto, mi incuriosisce il seguito ... ma io nn conto sono curioso di natura

                  - Benchè il movimento dei personaggia sia ben delineato, ritengo che manchino totalmente le descrizioni fisiche dei personaggi e delle ambientazioni ... tant'è che nella mia mente vedevo muoversi i personaggi con le facce dei miei colleghi di lavoro ... e ti assicuro che questo da poca credibilità al racconto !

                  - Sono perplesso, poi, da alcuni termini che hai utilizzato e da alcune incorenze: per esempio la donna ogni tanto si riferisce al padre col "VOI" e altre volte col "TU".

                  ... Queste sono gli aspetti più evidenti che ho notato ....

                  ... Tieni presente che questo è un Flat's Pensiero ... merito ...
                  Allora ti esprimo anche io un mio pensiero.
                  La lettura del testo è oesantemente rallentata ddai punti e virgola, che stilisticamente sono difficili da usare e nel tuo testo abbondano.
                  La descrizione dei personaggi può essere una personale scelta quindi non saprei che dire se il resto non c'è.
                  Conta che il prologo è praticamente tutto un dialogo tra due personaggi che chi legge non conosce, se ti giochi le tue carte così devi stare attento a come prosegui, in modo da evitare che il lettore si stanchi di queste continue riflessioni tra i personaggi.

                  Tutto questo unito a volte rende un pò faticoso il tutto, stai attento, te lo ripeto ancora, ai punti e virgola!!!Togline un pò.
                  Ti chiedo ancora scusa per il mio primo messaggio e partecipo a questo thread volentieri, sempre che faccia piacere a te amico Regia
                  http://img46.imageshack.us/img46/3987/userbarer7.jpg





                  http://gamesurf.tiscali.it/forum/sig...gpic6655_7.gif

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                  • #10
                    devo dire ke lo stile nn è male, soprattutto se si considera ke 6 alle prime armi, però la storia è mortalmente noiosa, credo ke dipenda dal fatto ke 6 entrato troppo brutalmente nella storia direttamente con scambi di battutte dei personaggi....
                    secondo me manca qualcosa all'inizio ke renda il tutto + avvincente e faccia venire voglia al lettore di sapere senpre quale sarà il prossimo passo della vicenda, forse anke con qualke descrizione in + andrebbe già meglio, ma se il seguito è come l'inizio nn credo ke riuscirei a finire un libro del genere.
                    spero ke riuscirai a migliorare il tuo racconto (sempre ke tu voglia farlo)

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                    • #11
                      Grazie ragazzi era proprio di crtiche crostuttive che avevo bisogno...

                      Vi posto il primo capitolo così (a chi fa piacere) poteti darmi anche un parere più preciso su quello che poi è il racconto vero e proprio.

                      Un grazie enorme a tutti quelli che hanno postato finora e a quelli che lo faranno.,

                      Ecco il primo capitolo di 12. Grazie ancora.

                      1 -. Sicilia, Tortorici gennaio 1899
                      «Il peggio è fatto, grazie al cielo oggi sto per finire come comanda natura…» disse a se stesso, mentre s’asciugava le mani sudate sui calzoni.
                      Sudava, sudava come mai aveva sudato in tutta la sua giovane vita, del resto non si poteva fare altro; ho sudavi zappando la terra, oppure te ne stavi a casa, guardando gli altri sudare. Questo al paesello di Tortorici lo si sapeva bene. Tutti lo sapevano, non potevi aspettarti altro se la sera volevi trovare a casa un pezzo di pane e un “morso” di companatico. Eppure secondo Liberante per mangiare non si doveva per forza sudare, c’erano sicuramente altri modi, bastava cercarli e se non esistevano, inventarli. Lui c’è da dire, zappava solo per campare, non certo perché gli piacesse; e a differenza di tanti e tanti poveri cristiani che invece una zappa e un pezzo di terra schifoso l’avrebbero presi volentieri, voleva fare il commerciante. “Lavorare con il sudore degli altri è cosa assai piacevole e redditizia… beato chi l’ha inventato il mestiere del commerciante” si ripeteva in continuazione. N’era accecato da quell’idea; totalmente preso. “Quando sta terra maledetta mi renderà il sudore che ha inghiottito in questi tre anni, lo investirò in un carretto e farò il commerciante a vita…” sempre, sempre se lo ripeteva, in continuazione, ma erano passate già 21 primavere sulla sua testa, un’altra si accingeva a passare, e niente di quel poco che fantasticava prendeva forma. Nulla.
                      Ma nonostante tutto, Liberante ogni mattina zappava quel pezzetto di terra sperando nel domani. Era fiducioso; della sua giovane vita non si lamentava, ma s’aspettava tutto; aveva una moglie bella, un figlio maschio e grazie a Dio un pasto a casa sua non mancava mai, perché nonostante quella zappa la odiasse, lui in tutto quello che faceva, compreso zappare, ci metteva costanza e passione, e si fermava solo per asciugarsi le mani con quella sua camicia che puzzava di lavoro, in modo tale da non farsela più sfuggire quella benedetta zappa, che sembrava capisse che quelli mani erano nate per altra cosa.
                      Quella mattina, quando il ronzio delle mosche e il peso sulla schiena del sole si fecero troppo pesanti (cosa strana per quel periodo della stagione), Liberante posò la zappa e con aria soddisfatta si fece scricchiolare ogni osso: «Tiè fatti rumpiri u culu terra maledetta, vincivi io pi oggi, mi ni vaio a casa, ni me figghiu e ni me mugliere.»
                      Fracido come un porco nella melma lo era, però contento. Aveva finito il suo “munniu” di terra, ora lui era in pace, il resto lo doveva fare il cielo, almeno così si disse prima di mettersi sul suo asinello al fine d’indirizzarsi da Contrada Fagotto a Contrada Mercurio dove abitava con la sua piccola famigliola nel paesello di Tortorici che, come ho dimenticato prima di dirvi si ruzzolava lungo una stretta valle presso i Nebrodi, in Sicilia.

                      2 -
                      La vallata di Tortorici pullulava di commercianti di nocciole, calie, castagne e ogni sorta di cereale. C’era chi vendeva stoffe, e chi vendeva abiti, chi vendeva martelli e chi chiodi, a Tortorici non mancava nulla in sostanza, e di questo la gente ne era e n’andava fiera. In ogni caso Tortorici non era famosa tra i Nebrodi solo per il suo formicolio economico dovuto all’agricoltura e al commercio; a Tortorici c’erano grandi avvocati, medici e letterati, ma fra tutto, ciò che faceva della piccola cittadina una delle località più rinomate di tutta l’isola era la lavorazione del metallo.
                      “Il paese delle campane” lo chiamano oggi, in onore dei grandi artigiani del passato che fra tutte le arti predilessero, quella della costruzione di campane. Campane d’ogni genere, per le mucche, per le capre, per i cani e i gatti, campane per le chiese, per privati… insomma lì a Tortorici le campane le sapevano fare ed erano maestri nel farlo.
                      Si stava discretamente a Tortorici, perché tutti si davano da fare; e a giudicare dal profumo che veniva dalla sua casetta, Liberante pensava la stessa cosa. Non era una grande casa; due stanze: in una si dormiva e in una si faceva tutto il resto, semplice. Semplice come Nedda la moglie di Liberante che nel frattempo tutta preoccupata aspettava sull’uscio di casa il marito che stranamente oggi ritardava più del solito. Preoccupazione comunque, che veniva alleviata da tutte le vecchiette di Contrada Mercurio le quali cercavano di tranquillizzarla dicendogli: “Nidduzza to maritu ieni fotti e iavuto e nun si perdi pi sciata”. Ma Nedda quelle voci le aveva gia sentite quando era piccola e sapeva che si sa quando si parte ma non quando si torna.

                      Erano passati già dodici anni e nessuno in paese se l’era dimenticato.
                      “Nedda entra che il papà ora viene…”. Ripeteva la madre da più di un quarto d’ora. “Cieni friddu fuori, ti piglierai nu malunnu!”. Ribatteva Donna Concetta, mentre era in punto di preparare la cena.
                      “Entra, fallo pi l’armmuzza di to nonna, entra”.
                      Ma la piccola Nedda non voleva entrare, come tutte le sere doveva fare la “sorpresa” al suo papà; doveva abbracciarlo al volo, del resto lo faceva da quando aveva mosso i primi passi, tutte le sere, quindi perché non quella. “Aspetta Mamma ora entro, aspetto un altro pochino e arrivo” ripeteva, pregustandosi l’ennesimo abbraccio.
                      Quella sera però Don Nino Portale non venne a casa, quella sera lo precedettero le urla disperate di Zia Rosanna, sorella di Don Nino, che entrava in casa come una pazza, piangendo e delirando qualcosa che non si capiva, ma che a giudicare della situazione sembrava orribile. “Parla che successo!!? Chi succiessi!!?” gridò la madre di Nedda. Nel frattempo la piccina entrava in casa e vedeva la zia scuotere la madre che pietrificata crollava a terra.
                      “Che cosa hai fatto a mamma!? Cosa zia?? Dimmelo!!”. Quelle frasi Nedda le ripeté cento volte quella sera. La risposta la ebbe un’ora più tardi quando gli zii Filippo e Bastiano portarono a casa il corpo senza vita del padre.
                      Nedda non volle mai sapere chi fosse stato, però ne conobbe il motivo. A dirglielo dal suo letto fu la madre, in punto di morte: “Nedda piccola mia, il papà è morto da solo”. Nedda si avvicinò, le parole della madre erano fioche e quasi incomprensibili. “Perché?” ribatté Nedda. “Perché si era rifiutato” rispose la madre. Seguì un lesto silenzio mentre Padre Cardaci, l’unico parroco della vallata, pronunciava alcune preghiere che facevano da sotto fondo al discorso tra Nedda e la Madre.
                      “Perché?!” replicò ancora una volta la giovane Nedda. “Perchè mamma!! Perché!?”. Anche se le risposte che lei attendeva erano importantissime il suo tono rimase sempre sereno e rispettoso. La madre affranta dal dolore con le ultime forze rispose con rabbia: “Pircchì nun pagau, vosi fari u spiettu e ni lassau suli”
                      Quelle frasi contenevano come bene sapeva Nedda, sì un forte dolore per la perdita del marito ma anche collera nei confronti di quest’ultimo. Il perchè era chiaro a Nedda, la madre incolpava il padre di essere stato egoista e di avere pensato solo al suo onore e a quel maledetto orgoglio che caratterizzava Don Nino Portale e forse caratterizza l’essere siciliani.

                      Mentre il riaffiorare dei ricordi faceva del bel viso di Nedda una maschera di dolore, Liberante si fece sentire; il suo fischiare era famoso in Contrada Mercurio. Nedda partì in tutta furia; accolse il marito stringendolo forte e baciandolo come se fosse ritornato da qualche battaglia. La ragazza era solita aspettare Liberante e rifarsi con lui tutta la salita che dall’entrata di Contrada Mercurio portava direttamente alla sua casetta discutendo di cosa aveva fatto e cosa avesse fatto il marito nella giornata; ma questa volta appariva diversa, nella faccia gli si leggeva una sorta di triste felicità.
                      «Nedda chi successe?... U picciriddu buono sta?» intimorito chiese Liberante, che non era abituato a queste calorose accoglienze, ne tantomeno ad una Nedda taciturna.
                      La giovane gli sorrise e gli rispose che tutto andava bene, mentre prendendolo per mano lo trascinò a casa come si trascina un bimbo di sei anni per farlo entrare a scuola.

                      .

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                      • #12
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                        Non appena si sedette a Liberante sorrise tutto. Fave e pasta all’uovo con pezzi di pane secco, bellissima cosa per uno che lavorava da una giornata sotto il sole; davanti a suoi occhi intanto Nedda allattava il piccolo Lucio, unico orgoglio di casa Montebello.
                        «Mangia, mangia figlio mio e cresci forte e bello come papà» disse soddisfatto Liberante. «Un giorno tu sarai Lucio Montebello il più grande commerciante di tutta la valle!».
                        Nedda sorrise al marito stringendo a se l’esserino che teneva in braccio. “Sono fortunata”.
                        Era fortunata davvero Nedda non gli mancava nulla, anche se la vita era stata ingiusta in passato nel toglierle dapprima il padre e in seguito la madre, il presente era felice; non poteva desiderare altro: un marito che amava e lo splendido figlio frutto del suo “modesto” matrimonio.
                        E' sì, tutto si poteva dire del marito; era forte, bello e assai lavoratore, ma di certo non un possidente, se non di un pezzetto di terra che il fratello maggiore, Nunzio, gli aveva… come dire... concesso in affitto. Tuttavia Liberante anche se attualmente non possedeva quasi nulla, proveniva da une delle famiglie più agiate economicamente di tutte le settantadue contrade di cui il paesello nebrodiano si formava. Questo comunque per lui non rappresentava un vantaggio, anzi, quando ci pensava si metteva a bestemmiare contro tutti i santi e in particolare contro San Sebastiano patrono di Tortorici; il motivo di tale rabbia era facile da capire: Liberante essendo nato in seguito a Nunzio primogenito di Carmelo Montebello, ricco proprietario terriero, ebbe la sfortuna di tutti coloro che essendo secondogeniti non hanno diritto a nessun lascito ereditario o quasi. Di questo però Liberante conforme alla tradizione siciliana non faceva colpa né al padre né al fratello Nunzio, ma solo ai Santi e alla fortuna che mai secondo lui l’avevano baciato. Questa almeno era la versione che parte del villaggio conosceva, ma la verità era un’altra e a conoscerla erano in pochi. Quell’anno le cose sembravano aver preso una direzione diversa però. Il matrimonio con Nedda, il figlio maschio, tutto stava filando liscio. E anche fuori dalla casa tutto era apposto; Liberante era amico di tutti, famoso per il suo fischio, era soprannominato tra le Contrade e il paesello, l’Usignolo, e di questo, anche se non lo faceva comparire n’andava assai fiero. Inoltre quell’anno la semina era stata una passeggiata per lui, come per gran parte dei contadini del resto. “Il cielo quest’anno è stato clemente con noi, ci ha fatto seminare in tutta tranquillità” diceva alla moglie mentre ritornava da casa ogni giorno da lavoro.
                        Non appena il piccolo Lucio smise di ciucciare, Nedda che quasi s’addormentava, si guardò intorno stordita, notando il figlio più che sazio e il marito pronto per un altro piatto di fave e pasta. Ancora assordata adagiò il figlio nel suo lettuccio e accontentò il marito che nel frattempo dichiarava: «Nedda, sbrigati, stasera vado alla taverna di Zù Cola e mi faccio una bella partita con Giovanni e Franco».
                        «Ma perché!? Non puoi rimanere a casa stasera? Che ci vai a fare in quella locanda, lì sono tutti ‘mbriachi...» Borbottò Nedda mostrando sul viso tutto il suo disappunto.
                        Liberante la guardò e sorrise. «Dai non ci vado mai!! Ho terminato la semina e voglio divertirmi con qualche amico, torno presto…»
                        «Dici sempre così, ogni volta. La verità è solo una: in quel posto ci sta brutta gente e tu quando torni sei come loro» obiettò Nedda. «Non andarci poi puzzi di vino e fumo…»
                        Liberante la tornò a guardare sorridendo. «Vino di qualità però» ironizzò.
                        «Fa quello che ti pare, ma solo per oggi» rispose Nedda, cosciente che replicare non sarebbe servito a nulla, valutata ormai da tempo la testaccia dura che si ritrovava il marito.
                        Fatta spazientire Nedda, Liberante tornò ad occuparsi del suo gustoso piatto di fave e pasta, cosa di non tutti i giorni, visto il costo di un chilo di fave secche giù al paese. Finito di mangiare si buttò sù un vecchio cappotto verde militare, salutò la moglie, baciò il figlio che dormiva come un ghiro, e si mise in groppa sul suo asino che di camminare come dice qualcuno non ne voleva sentire manco ammazzato. Del resto quell’asinello non aveva poi così tanto torto, era lui infatti ogni giorno a doversi fare tre chilometri caricato sempre fino all’osso in modo da raggiungere il piccolo appezzamento di terra del padroncino; problema questo, non tanto grosso viceversa per Liberante che, rivolgendosi all’asino ogni qualvolta ripeteva: “Tu nascisti sceccu e macari sfurtunatu come a mia, quindi cammina è statti mutu”.
                        «Iemu!! Haa!! Haaa!!» gridò rivolgendosi all’asinello il quale irrigidiva sempre più le sue zampe suggerendogli che da lì non si sarebbe mosso nemmeno ammazzato di un solo centimetro; non certo perché fosse stanco, semplicemente la bestia non c’era abituata a camminare di notte, ma Liberante ch’aveva la testa solo alla taverna e ai suoi amici non riuscì ad afferrarlo. «Maledetta bestia cammina o ti bastono per bene!!»
                        Tra grida, minacce e imprecazioni varie, passarono circa dieci abbondanti minuti, finché sfinito Liberante non decise evidentemente che s’era fatto assai tardi per continuare ad impicciarsi dei motivi assurdi che portavano quella bestiola a non smuoversi; così, incavolato come un cane rabbioso prese le redini dell’asino e le annodò intorno all’albero di mandorlo su cui in cerchio aveva costruito il piccolo capanno che si trovava a pochi passi dalla sua casetta. “Domani mattina ci facciamo i conti, dannato d’un asino!!” mormorò fra se, mentre allo stesso tempo sferrava un preciso calcio allo stomaco della bestia e malediceva il giorno in cui Zia Rosalia glie l’aveva regalato.
                        Fuori intanto era scesa la notte e con lei i suoi colori e le sue cupe voci. Tortorici come tutti i paesi di montagna si trasformò radicalmente: le urla dei commercianti ch’erano andati a dormire a casa propria in qualche paesello vicino, da qualche parente o in qualche “Funnìcu”, (cugino delle nostre pensioni) ora, venivano sostituiti dal mormorio della gente che nel caldo delle loro abitazioni consumavano il proprio pasto; i vari cinguettii che si udivano fra gli alberi accompagnati da squittii e pigolii si fermavano per dare spazio alle civette, ai gufi e al loro ammaliante ma allo stesso tempo angosciante canto; e come loro, anche porci, galline, cani, gatti e vacche accompagnate da caprette e pecore andavano a riposare per dare permesso al silenzio di regnare indisturbato per le strade del paese che brillavano solo di quella fioca luce di alcune lanterne sparse qua e là.
                        “Sono le sette, eppure sembra mezzanotte” rifletté fra se Liberante, riponendo all’interno del mantello un orologio da tasca in cui scolpite vi erano due ali incrociate; uno dei pochi ricordi del padre in possesso.
                        Passò un bel pezzo prima che Liberante potesse arrivare alla taverna di Zù Cola distante parecchie centinaia di metri dal suo abituro; da lontano oltre alle due piccole finestre illuminate in cui s’agitavano sagome d’ogni genere innalzare boccali ed altro, già si poteva notare la locandina del ritrovo preferito della gran parte dei Tortoriciani, in cui disegnato vi era uno scudo rosso con una croce greca verde in mezzo. Passo dopo passo, s’incominciarono ad udire anche le risa e le grida divertite di tutti gli assidui frequentatori che, mischiate a quelle della notte e del torrente Calagni davano vita al solito caratteristico schiamazzo che imperversava come tutte le sere l’intera Contrada Ciumarra. Un vociferare quello della taverna di Zù Cola non certo apprezzato dai vicini visto gl’insulti che di tanto in tanto giungevano alle orecchie del taverniere, il quale comunque non si preoccupava troppo poiché forte dell’appoggio dei suoi clienti che invece quel fracasso lo benedicevano.
                        In quest’atmosfera ci vollero pochi attimi affinché le snervate cervella di Liberante che s’erano assorbite gli strepiti di quest’ultimo e del suo asino si allentassero. Svanita la rabbia entrò nella taverna sorridendo; tutti l’accolsero a gran festa:
                        “Picciotti arrivau macari Liberante” gridò qualcuno, mentre un’altro ancora indaffarato a bere vino o a giocare a briscola aggiungeva: “Minghia macari l’usignolo ni vinni a trovare sta sera”. Il ragazzo felice dell’accoglienza calorosa, che in ogni caso nessuno risparmiava, si sedette e gridò in tutta felicità: “Vino, Zù Cola! Vino a tutta volontà!! Sta sira paiu iò”. Accanto a Liberante come sempre si affiancarono gli amici: Giovanni Fonte e Franco Nicosia. Tutto filò liscio. Carte, vino, briscola, e risate. Ognuno raccontava tutto quello che di storto gli era accaduto nella giornata e il trio ci rideva sopra. E poi si sa il vino in queste cose è compagno ottimo.

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                        • #13
                          Aveva le lacrime agli occhi per le forti risate Liberante, quando estrasse nuovamente dal taschino il suo orologio e si apprestava a dire a suoi compagni che era ora di ritornare dalle proprie famiglie. Il trio d’accordo, si mise in marcia, e uscito dalla locanda si salutò, e si avviò ognuno per la propria casa. Franco scese a valle verso Contrada Sciortino dove l’aspettava la sua famiglia, Giovanni invece verso Contrada Butana, Liberante verso Contrada Mercurio. “E' tardi miseria ladra!”.
                          Ed era tardi sì, almeno a giudicare dall’andamento di Liberante che se confrontato a quello dei suoi amici sembrava un cavallo al galoppo, correva ripetendosi che era l’ultima volta che il tempo e il vino lo fregavano, ma ormai perfino lui stesso sapeva che ci sarebbe ricascato nuovamente.
                          Malgrado il vento di quella sera Liberante arrivò a casa tutto sudato e un po’ intimorito per la reazione che Nedda avrebbe avuto. Aperta la porta di casa, s’impaurì. Era abituato oramai ai lamenti della moglie, quella sera se l’aspettava furiosa con il bastone fra le mani, ma nulla, silenzio e buio. Allora di fretta e furia accese il lume e passò nell’altra stanza, in cui la paura di prima si dissolse. Nedda e il piccolo, dormivano. “E’ tardissimo” si disse fra se il ragazzo. “Neanche Nedda questa volta ha resistito”. Spogliatosi, spense il lume e posò le sue ossa stanche ma soddisfatte sul letto già scaldato dalla moglie, che riconoscendolo lo abbracciò.
                          «Ti sei divertito?» gli sussurrò all’orecchio.
                          «Sì» rispose soddisfatto Liberante.
                          «Bene, mi prometti che non ci vai più» sempre la moglie all’orecchio.
                          «No» ridacchiando rispose il marito.
                          Continuarono così per qualche minuto, fin quando il sonno e la stanchezza accumulata in giornata non li fece addormentare entrambi.

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                          «Dai! Alzati ‘mbriacuni!» disse Nedda tutta divertita, mentre mescolava il latte che già bolliva sulle grandi piastre di ferro della sua piccola cucina a legna.
                          Liberante in ogni modo era già alzato, e sebbene la sbornia del giorno precedente ci fosse stata, giocava col figlio nella stanza da letto come se nulla fosse.
                          Giocavano al gatto e al topo i due: Liberante apriva la mano poggiandoci su un pezzo di legno, il figlio doveva prenderlo senza farsi “fregare” la manina; perdeva ogni volta, ma al piccolo Lucio il gioco del gatto e topo, piaceva un casino, infatti, se la rideva come un matto, provandoci gusto a farsi “acchiappare”.
                          Nedda oramai innervosita aprì la porta: «Allora ti alzi o…» s’interruppe. «Sbrigati passa in cucina che si raffredda» aggiunse stupefatta, con tono decisamente più pacato.
                          Nedda era piacevolmente stupita e allo stesso tempo incuriosita. “Alzato a quest’ora come mai?” si chiedeva, mentre versava in una grande tazza di creta del latte che inebriava col suo profumo gran parte della stanza. Liberante che al cibo qualsiasi esso fosse, non resisteva, passò immediatamente e incominciò a inzupparci del pane. Stranamente quella mattina, appariva vispo; negl’occhi gli si leggeva un qualcosa che a Nedda quasi non piaceva. Era distaccato, freddo; ciò non era da lui. Insomma non era da Liberante dopo una serata trascorsa alla locanda di Zio Cola alzarsi presto, per giunta di Domenica e senza alcun motivo.
                          La pensava esattamente così la moglie che fissandolo in modo curioso chiese: «Ma perché ti sei alzato cosi presto? Di solito devo buttarti io dal letto la domenica» e ancora «E poi, ieri hai detto che avevi portato a termine il lavoro ai campi; oggi finalmente hai un giorno di vacanza… Che hai in mente!?»
                          Liberante intanto che nello sguardo era completamente assente, continuava ad inzuppare nel latte il suo pezzo di pane che lentamente morso dopo morso scompariva.
                          «Ma sei ancora ubriaco??» chiese la moglie con un pizzico di preoccupazione, cercando di percepirne lo sguardo che tuttavia si buttava in basso verso la tazza di latte. «Allora, mi rispondi?!»
                          Liberante non ribatté, ancora. Imperterrito continuava a non degnare la moglie d’un cenno o più semplicemente di uno sguardo. Passarono alcuni istanti, poi con voce addolorata Nedda si precipitò sul marito, tirando a se il braccio nella quale lui teneva quel pezzo di pane con cui sembrava azzuffarsi: «Vita mia chi succidiu!?»
                          Liberante balzò in piedi dallo spavento; gli rispose urlando: «Ma che caspita ti succede!? Ma sei pazza!?»
                          Al rimprovero del marito Nedda sparì. Umiliata e confusa la ragazza si allontanò e pian piano incominciò a piangere; la reazione di Liberante l’aveva spaventata.
                          Quest’ultimo più confuso che persuaso si chinò a lei che nel frattempo si era seduta, e sottovoce quasi a volersi scusare disse: «Cosa c’è Nidduzza?? Dai non fare così non l’ho fatto apposta…»
                          «Niente. Non è successo niente. E’ tutta colpa mia.» Mentre cercava di fermare le lacrime senza risultato, singhiozzò Nedda.
                          «Cosa t’ho fatto? Parla…» balbettando domandava il marito, che nel vedere la giovane moglie piangere era mortificato.
                          «Sembravi strano; non mi rispondevi. Mi sono spaventata...» Torno a ripetere Nedda. «E’ tutta colpa mia, sono una scema.»
                          «Ma dai calmati, ero soprappensiero e mi sono spaventato. Lo sai, mi capita sempre di essere soprappensiero» cercò di giustificarsi Liberante.
                          «Eri diverso questa volta. Ti ho chiamato dieci volte. Poi ho visto che eri alzato; ti ho salutato, ma tu con la faccia da morto ti sei seduto e hai incominciato ha mangiare senza alcun gesto alle mie domande, anzi più io aumentavo la voce più tu eri stordito da qualcosa… E poi la tua faccia, il tuo sguardo… facevi spaventare.» Sussurrò Nedda asciugandosi le guance.
                          Liberante si scusò più volte, mentre la baciava e l’abbracciava. La donna ci mise non poco a calmarsi. Si era spaventata maledettamente. Era fatta così Nedda, forse per il suo passato, forse perché ancora aveva solo venti anni, sta il fatto che malgrado fosse forte e intelligente allo stesso tempo era più fragile di un cristallo.

                          Quella mattina era passata in un baleno. Nedda appena calmatasi si alzò dalla sedia e accudì il figlio, Liberante puliva la stalla e il piccolo pollaio. Erano divisi da qualche staccionata e da qualche muro, ma per tutta la mattinata non si videro né si sentirono. Poi, il silenzio fu interrotto, quando Nedda uscì da casa e si avviò nella piccola stalla accanto; rivolgendosi al marito che nel frattempo stava pulendo la mangiatoia all’asino con voce cauta e lieve disse: «Dai mangiamo, nel pomeriggio dobbiamo fare visita a Zia Rosalia e poi dobbiamo andare in chiesa.»
                          Liberante annuì sorridendogli.
                          I due consumarono il pasto guardandosi più volte negl’occhi senza rivolgersi la parola, poi si misero il “vestito domenicale” e uscirono dalla casetta incamminandosi verso Zia Rosalia.
                          Fu in quel tratto di strada tra Contrada Mercurio dove i due vivevano e il centro del paese dove abitava Zia Rosalia, che Nedda capì quanto sola fosse al mondo senza Liberante. Liberante dal canto suo guardava la moglie camminare con Lucio, e ricordando quanto successo in giornata capiva l’amore unico che legava l’uno all’altra. Un amore indissolubile che forgiava le sue radici sull’umiltà e la sensibilità d’animo d’entrambi, qualità queste ultime che discendevano direttamente non da un dono di Dio ma semplicemente dalle circostanze vissute.

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                          • #14
                            Ok, Ok... Mi fermo al 4° Paragrafo del 1° Capitolo.... a fare copia e incolla sto uscendo pazzo....

                            Grazie ancora, ciao.

                            REGIA.
                            Last edited by Regia.; 22 April 2005, 20:23.

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                            • #15
                              hai gia deciso il titolo?
                              "il destino ti verrà a cercare"

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