Intervista dell'ex calciatore Petrini per l'Espresso
"Sono un ex calciatore di serie A. Ho girato squadre grandi e piccole (Genoa, Milan, Torino, Varese, Catanzaro, Ternana, Roma, Verona, Cesena, Bologna), e quasi tutte mi hanno pagato con soldi neri, che si chiamavano "fuoribusta". Sul contratto ufficiale c’era indicata la metà dei soldi che in realtà mi davano: dicevano che bisognava fare così per pagare meno tasse, cioè per evadere il fisco. I soldi "neri" me li davano in contanti, come al mercato.
In nome degli interessi affaristici della società che mi stipendiava, e anche per aumentare il mio valore di giocatore, in certi periodi mi sono dopato (a parte i risultati "combinati" e le scommesse clandestine, certo). Quella del doping non era una mia iniziativa (ero troppo idiota anche per decidere liberamente un fatto del genere), ma una decisione dell'allenatore o del medico sociale, e io ero pronto a ubbidire perché era un interesse comune: mi sentivo un furbastro, un macho-gladiatore disposto a tutto pur di vincere, e vincere voleva dire successo e soldi, per me e per la società.
Erano gli anni Settanta, e il calcio professionistico cominciava a essere quello che è diventato oggi: non uno sport, ma un'industria. Non un ambiente formativo di lealtà e correttezza, ma una scuola di furbizia per figli di puttana. Non una palestra di agonismo, ma una centrale di affari e potere. E siccome io, da giocatore, non ero un marziano, non ero la mela marcia nel cesto di mele sane (ero una pecora nera in un gregge di pecore nere: le grigie erano poche, e di bianche non me ne ricordo neanche una), non mi stupisce che il carrozzone pallonaro, oggi, sia arrivato al punto in cui è arrivato.
Quando giocavo io, in ballo c'erano i milioni; oggi ci sono i miliardi. E oggi, con le società di calcio quotate in Borsa, le vittorie e le sconfitte calcistiche non sono più fatti sportivi ma economici. L'aspetto sportivo è solo il pretesto per il business, è la biada per il parco-buoi dei tifosi. Quei rincoglioniti di tifosi che ancora credono alla "bandiera" e sono attaccati alla "maglia", facendo finta di non capire che presidenti, dirigenti, allenatori e giocatori sono attaccati solo ai propri affari, e l'unica bandiera che hanno è il portafoglio.
Alla guida del carrozzone pallonaro ci sono i presidenti, che attraverso il calcio cercano soldi, notorietà e potere (ecco perché sempre più spesso c'entra anche la politica). E si sa che il business non vuole né morale né sentimenti - figurarsi se può volere la lealtà sportiva.
Cosi, all'interno delle società di calcio succede di tutto, proprio come nel mondo degli affari: fondi neri, bilanci falsi, frodi fiscali, corruzione, bancarotte, truffe (oltre al doping e alle partite "combinate"). Infatti, negli ultimi vent'anni sono decine i presidenti pallonari di serie A, B e C che sono finiti nelle cronache della criminalità da "colletti bianchi", e altrettanti sono quelli che ci finiranno.
La faccenda del doping sta al calcio di oggi come il fungo sta alla pianta. Lasciamo perdere le sostanze vietate, quelle che sono ufficialmente considerate dopanti. Il processo alla farmacia della Juventus in corso a Torino (ma la "farmacia", grande o piccola, ce l'hanno tutte le squadre) dimostra che i giocatori di calcio, benché siano giovani atleti, prendono un sacco di assurde medicine per "migliorare" le loro prestazioni. Cioè per correre di più, per cancellare la stanchezza, per aumentare la potenza muscolare. E più i giocatori corrono e vincono, più valgono sul mercato, più la loro società fa affari, più la Borsa sale...
A proposito di doping. Nel mio libro autobiografico ho raccontato quella che negli anni Settanta era la farsa dei cosiddetti "controlli" antidoping. La commedia è continuata fino ai giorni nostri, e a quanto si mormora nell'ambiente con qualche variante. Infatti un paio di anni fa, in occasione di uno scandalo-doping da cocaina in serie A, il giocatore trovato positivo era un campionissimo costosissimo, e che per evitare di danneggiare "il patrimonio", la positività è stata rifilata a un suo incolpevole compagno di quadra, molto meno famoso e molto meno costoso. Lo sanno tutti, ma tutti fanno finta di niente: l'omertà nell'ambiente è d'obbligo.
C'è chi mi domanda se il calcio di oggi, col pallone imbottito di soldi e doping, sopravviverà a se stesso, e se sia possibile cambiare questo andazzo. Alla prima domanda non so rispondere, mentre alla seconda rispondo di no. Perché le assurdità del calcio odierno non sono momentanee degenerazioni, ma aspetti strutturali che si sono consolidati negli anni. È un sistema che non sarà possibile cambiare, almeno fino a quando nel calcio continueranno a farla da padroni personaggi come Luciano Moggi, Franco Carraro e Adriano Galliani. "
"Sono un ex calciatore di serie A. Ho girato squadre grandi e piccole (Genoa, Milan, Torino, Varese, Catanzaro, Ternana, Roma, Verona, Cesena, Bologna), e quasi tutte mi hanno pagato con soldi neri, che si chiamavano "fuoribusta". Sul contratto ufficiale c’era indicata la metà dei soldi che in realtà mi davano: dicevano che bisognava fare così per pagare meno tasse, cioè per evadere il fisco. I soldi "neri" me li davano in contanti, come al mercato.
In nome degli interessi affaristici della società che mi stipendiava, e anche per aumentare il mio valore di giocatore, in certi periodi mi sono dopato (a parte i risultati "combinati" e le scommesse clandestine, certo). Quella del doping non era una mia iniziativa (ero troppo idiota anche per decidere liberamente un fatto del genere), ma una decisione dell'allenatore o del medico sociale, e io ero pronto a ubbidire perché era un interesse comune: mi sentivo un furbastro, un macho-gladiatore disposto a tutto pur di vincere, e vincere voleva dire successo e soldi, per me e per la società.
Erano gli anni Settanta, e il calcio professionistico cominciava a essere quello che è diventato oggi: non uno sport, ma un'industria. Non un ambiente formativo di lealtà e correttezza, ma una scuola di furbizia per figli di puttana. Non una palestra di agonismo, ma una centrale di affari e potere. E siccome io, da giocatore, non ero un marziano, non ero la mela marcia nel cesto di mele sane (ero una pecora nera in un gregge di pecore nere: le grigie erano poche, e di bianche non me ne ricordo neanche una), non mi stupisce che il carrozzone pallonaro, oggi, sia arrivato al punto in cui è arrivato.
Quando giocavo io, in ballo c'erano i milioni; oggi ci sono i miliardi. E oggi, con le società di calcio quotate in Borsa, le vittorie e le sconfitte calcistiche non sono più fatti sportivi ma economici. L'aspetto sportivo è solo il pretesto per il business, è la biada per il parco-buoi dei tifosi. Quei rincoglioniti di tifosi che ancora credono alla "bandiera" e sono attaccati alla "maglia", facendo finta di non capire che presidenti, dirigenti, allenatori e giocatori sono attaccati solo ai propri affari, e l'unica bandiera che hanno è il portafoglio.
Alla guida del carrozzone pallonaro ci sono i presidenti, che attraverso il calcio cercano soldi, notorietà e potere (ecco perché sempre più spesso c'entra anche la politica). E si sa che il business non vuole né morale né sentimenti - figurarsi se può volere la lealtà sportiva.
Cosi, all'interno delle società di calcio succede di tutto, proprio come nel mondo degli affari: fondi neri, bilanci falsi, frodi fiscali, corruzione, bancarotte, truffe (oltre al doping e alle partite "combinate"). Infatti, negli ultimi vent'anni sono decine i presidenti pallonari di serie A, B e C che sono finiti nelle cronache della criminalità da "colletti bianchi", e altrettanti sono quelli che ci finiranno.
La faccenda del doping sta al calcio di oggi come il fungo sta alla pianta. Lasciamo perdere le sostanze vietate, quelle che sono ufficialmente considerate dopanti. Il processo alla farmacia della Juventus in corso a Torino (ma la "farmacia", grande o piccola, ce l'hanno tutte le squadre) dimostra che i giocatori di calcio, benché siano giovani atleti, prendono un sacco di assurde medicine per "migliorare" le loro prestazioni. Cioè per correre di più, per cancellare la stanchezza, per aumentare la potenza muscolare. E più i giocatori corrono e vincono, più valgono sul mercato, più la loro società fa affari, più la Borsa sale...
A proposito di doping. Nel mio libro autobiografico ho raccontato quella che negli anni Settanta era la farsa dei cosiddetti "controlli" antidoping. La commedia è continuata fino ai giorni nostri, e a quanto si mormora nell'ambiente con qualche variante. Infatti un paio di anni fa, in occasione di uno scandalo-doping da cocaina in serie A, il giocatore trovato positivo era un campionissimo costosissimo, e che per evitare di danneggiare "il patrimonio", la positività è stata rifilata a un suo incolpevole compagno di quadra, molto meno famoso e molto meno costoso. Lo sanno tutti, ma tutti fanno finta di niente: l'omertà nell'ambiente è d'obbligo.
C'è chi mi domanda se il calcio di oggi, col pallone imbottito di soldi e doping, sopravviverà a se stesso, e se sia possibile cambiare questo andazzo. Alla prima domanda non so rispondere, mentre alla seconda rispondo di no. Perché le assurdità del calcio odierno non sono momentanee degenerazioni, ma aspetti strutturali che si sono consolidati negli anni. È un sistema che non sarà possibile cambiare, almeno fino a quando nel calcio continueranno a farla da padroni personaggi come Luciano Moggi, Franco Carraro e Adriano Galliani. "
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