Dalla traccia appena postata.
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Torneo di One Shot - Nuova Edizione
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Originariamente Scritto da Gastrok_s_DEVASTED^!? Visualizza MessaggioLa mia presentazione era poserata, tanto per vedere l'ambiente.sigpic
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Originariamente Scritto da Feleset Visualizza MessaggioLa storia deve essere realistica nel senso che deve essere ambientata nel nostro mondo, giusto?
Originariamente Scritto da Majin Broly Visualizza MessaggioPer la traccia, alpha, sarebbe forse più idoneo un metodo come quello di grifis, ovvero un tema generale con libertà di sviluppo. Lui la tolleranza, tu la morte, senza incanalare l'utenza in una trama prestabilita. Ne convieni?sigpic
La mia FF (con riassunto) http://gamesurf.tiscali.it/forum/showthread.php?t=75487
Altre mie FF http://gamesurf.tiscali.it/forum/sho...42#post1433042
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Originariamente Scritto da Dargil Visualizza MessaggioSe tutti gli utenti hanno gia fatto la traccia, è possibile presentare prima del 18 i lavori?
Il tempo limite sarà di due settimane, ma se i partecipanti postano prima non fanno male a nessuno, ovviamente.#1926 #ForzaNapoliSempre
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Originariamente Scritto da Feleset Visualizza MessaggioRagazzi, ce la fate tutti per venerdì a postare? Giusto per sapere, perchè piuttosto che aspettare invano preferirei dare un po' di tempo in più. Sempre che serva.#1926 #ForzaNapoliSempre
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Per questo motivo volevo sondare un po'. Se ci sono almeno tre utenti che vorrebbero una proroga, direi che a questo punto si potrebbe allungare i tempi per tutti e basta.
Io stessa comunque preferirei avere un po' di tempo in più questa volta.sigpic
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Perdonami
Spoiler:Bianco.
L’unico aggettivo che le veniva in mente per descrivere ciò che vedeva era “bianco”.
Si osservò, e notò subito che non indossava più il tailleur con cui era uscita dal lavoro assieme a Miguel. Al suo posto vi era un elegante abito lungo da sera, in quella che pareva essere pura seta, di un rosso sanguigno, che le fasciava il seno e i fianchi in maniera molto sensuale, lasciando scoperte abbondanti porzioni di schiena e spalle. Dopo un attimo di smarrimento, ricordò dove aveva già visto quell’abito. Era in una vetrina davanti alla quale era passata poco prima, e stava giusto meditando sull’acquisto, quando…
Quando?
Non riusciva a ricordare. Il nulla, il bianco completo che la circondava sembrava impedirle di concentrarsi. Cosa ci faceva un’attraente trentenne con un abito scollato da dodicimila dollari nel mezzo di un vaporoso e candido niente?
“Dannazione, non ce la fa!”
Un’impercettibile sussurro fece vibrare l’aria. Sembrava giungere da un luogo lontanissimo, ma, al contempo, le parve che la voce venisse da un punto molto vicino al suo volto.
La cosa più assurda di quella situazione era, tuttavia, il suo stato d’animo. Nonostante tutto, era stranamente serena, quasi tranquilla. Mosse un passo in avanti, e scoprì che le costose scarpe col tacco ai suoi piedi (anche quelle in vetrina con l’abito) non emettevano alcun rumore al contatto col suolo.
“Fate qualcosa!”
Di nuovo la voce, di nuovo quell’ambigua sensazione sulla sua provenienza. Volse lo sguardo a destra, poi a sinistra, ma ovunque era solo bianco.
“È solo un’eco, Karen, non preoccuparti. Presto svanirà. Fossi in te lo assaporerei, finché puoi udirlo.”
Stavolta non aveva dubbi, c’era qualcuno alle sue spalle. Si girò completamente, e non potette fare a meno di notare come l’apparizione di fronte a lei stonasse sia con l’ambiente che col suo prezioso abbigliamento.
Una panchina. Una normalissima panchina, di quelle che si trovano nei parchi pubblici. Il legno consumato, il ferro leggermente arrugginito, quella panchina sembrava un pezzo di realtà bruscamente catapultato in un sogno. Sopra sedeva un giovane. La fissava, e certamente era stato lui a parlare un secondo prima. Aveva lunghi capelli di un biondo splendente, vagamente arruffati, che coprivano in parte il volto. Sotto i ciuffi che cadevano scomposti sulla fronte Karen notò subito due sfavillanti occhi azzurri, penetranti. Tutto nel suo volto dava l’idea di una simmetrica perfezione passata, trascurata. Non poteva avere più di vent’anni, eppure qualcosa nel suo volto lasciava trasparire una travagliata esperienza che ne aveva segnato la perfezione. Vestiva con una camicia bianca, visibilmente sporca e lacerata in alcuni punti, abbottonata a metà del petto. Anche i pantaloni avevano lo stesso aspetto, con tagli all’altezza del ginocchio e della coscia. Non indossava scarpe. L’impressione che le diede fu quella di uno sventurato ragazzo, forse fuggito di casa, magari per un litigio col padre. Karen iniziò a muoversi verso la panchina, che sembrava distare dal lei non più di quattro o cinque metri.
“Chi sei tu?”
Il ragazzo la fissò per tutto il tragitto, continuando a guardarla negli occhi anche quando si fermò in piedi di fronte a lui. Da quella distanza la donna riuscì a cogliere meglio il suo sguardo. Non poteva esserne certa, ma le era sembrato di scorgere un lampo di incredibile tristezza, nel momento in cui si era fermata.
“Solo uno di passaggio, proprio come te. Siediti pure, purtroppo non dovrai attendere molto, e non sopporto di avere così poco tempo per parlare. Non è molto, ma mettiti pure comoda.”
Karen si sedette. La panchina era dura e scomoda come immaginava, e il suo primo pensiero andò al vestito. Sperava vivamente che non si rovinasse.
“Tranquilla, non può accadere nulla a quell’abito, e se non erro non è neppure tuo. Immaginavo che non sarebbe stata di tuo gradimento, del resto è uno dei motivi per cui non hai praticamente mai accompagnato Kevin al parco.”
Karen si voltò di scatto per fissarlo. Era alla sua destra, ed ora che erano entrambi seduti si era resa conto di quanto fosse alto, certamente più di un metro e ottanta.
“Cosa sai tu di me e di Kevin?”
Il ragazzo rise brevemente, un suono senza alcuna gioia che fece rabbrividire la donna.
“La vera domanda è: cosa sai tu di Kevin?”
Karen parve turbata.
“Io non…”
“Oggi è il suo compleanno. Cinque anni, un ometto ormai, come piace chiamarli a voi mamme. Cosa hai vissuto di lui in cinque anni? Le recite, le visite dal medico, il parco giochi, le feste, quante volte c’eri? Anche oggi…e di certo hai esaurito le occasioni per recuperare. Robert sarà distrutto…”
Karen trasalì leggermente. Una parte di lei era sconvolta dalle frasi del ragazzo, ma un’altra non riusciva a scrollarsi di dosso quell’apatia che si sentiva dentro da quando era arrivata in quel luogo.
“Cosa stai dicendo?”
Di nuovo la stessa, breve risata.
“Andiamo, a questo punto l’avrà capito chiunque. Sei…
“L’abbiamo persa…”
Morta. Quella era l’ultima eco. Ora non hai più legami.”
La donna si alzò di scatto. L’apatia parve scomparire, sostituita dalla consapevolezza di ciò che era accaduto.
“No! Robert, l’auto…mio dio! Ci ha visti! Io…”
“Sì, ti ha vista. Dovevi trattenerti a lavoro sino a tardi, così era uscito da solo per comprare un regalo a Kevin. Ma si sentiva in colpa. Aveva rinunciato alla carriera per te, per seguire il piccolo mentre tu coronavi il tuo sogno. Ma lui riusciva a vedere solo quante gioie della vita di Kevin ti stessi perdendo per mantenere lui e vostro figlio, e questo lo tormentava. Fotografava ogni cosa per mostrartela, convinto che tu soffrissi di quella lontananza. Tutto ciò ha portato alla vetrina, a quel vestito, e all’auto. Ricordi?”
La donna annuì. Stava lentamente prendendo coscienza di ciò che era avvenuto, mentre tentava di non venirne sopraffatta.
“Tu chi sei? Perché sei qui?”
Il ragazzo la fissò con lieve e divertito stupore, anche se alla donna parve di nuovo di scorgere quel lampo di sconforto.
“Non vuoi parlare di quel momento? Ok, ci torneremo dopo, ma dovremo farlo, sappilo. E ricorda che non abbiamo molto tempo.”
Fece un attimo di pausa, fissando un punto imprecisato lontano da loro, nel candido vuoto che li circondava, poi tornò a guardarla negli occhi.
“Ricordi ciò che hai pensato poco fa, quando mi hai guardato e hai soppesato il mio aspetto fisico? Non sei andata così lontana dal vero. La verità è che non me ne sono andato di casa. Sono stato cacciato da mio padre.”
Ancora un pausa, come se stesse cercando di elaborare un ricordo visibilmente doloroso. Karen attendeva il continuo della narrazione. La voce di quel ragazzo sembrava possedere il potere di catturare la completa attenzione dell’ascoltatore. Il suono era affascinante e suadente, e i suoi stessi occhi sembravano raccontare la storia, in perfetta sintonia con le parole. La donna bramava perdersi di nuovo in quella voce, che l’aveva, seppur per poco, distratta dal proprio ricordo.
“Non è facile essere un figlio, quando sai che non potrai mai eguagliare il successo, le qualità di tuo padre. Come ogni figlio non vorresti mai deluderlo, brami la sua approvazione, lo stupore nei suoi occhi nel momento in cui si accorge che hai compiuto qualcosa di straordinario. Non mi bastava l’amore di mio padre. Volevo la sua ammirazione. Così compii un’impresa che stupì i miei fratelli, portai a compimento quello che ritenevo essere l’unico fallimento di mio padre. Avevo talento, ero il primogenito, e volevo lasciare la mia impronta su questo mondo. Pagai a caro prezzo la mia presunzione. Mi dispiace…”
Pronunciò le ultime due parole rivolgendosi chiaramente a Karen. La donna, ancora ammaliata dal racconto, venne come scossa dal brusco cambiamento di tono di quell’ultima frase, triste e tremendamente personale.
“Cosa vuoi dire?”
Poi un’idea balenò nella sua mente, maturata dal fatto che aveva ormai preso piena coscienza dei suoi ultimi istanti.
“Oh mio dio…non mi dirai che dentro quell’auto…”
Il ragazzo colse al volo il riferimento, a subito ne approfittò per tornare sulla morte di Karen.
“Vedo che ti è tornata la voglia di discutere di te. Ma non eravamo ancora giunti all’auto, se non sbaglio. Torniamo al vestito. Perché l’hai voluto qui con te? Ora lo ricordi, non è vero?”
La donna abbassò lo sguardo, fissando il costoso abito che le fasciava il corpo dal seno sino alle gambe.
“È il regalo di Robert.”
“Sono felice di sapere che l’hai capito, anche se, dentro di te, l’avevi intuito sin dall’inizio, come dimostra il fatto che tu sia giunta qui indossandolo.”
“No, pietà, pietà! Ti scongiuro, non ce la faccio più!”Last edited by Majin Broly; 16 June 2010, 21:02.
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Spoiler:Non era un sussurro, come le voci di poco prima. Karen colse distintamente il lamento straziante, lacerante, anche se aveva qualcosa in comune con quelle che il ragazzo chiamava eco: sembrava anche quello provenire sia da distanze siderali sia da dietro la panchina. La donna, ripresasi dallo stupore, fissò il giovane, e si meravigliò nel vedere una lacrima che rigava il suo splendido e segnato volto.
“Speravo avessimo più tempo…ma non indugiamo, voglio ancora parlare con te.”
“Cos’era quella voce?”
Karen era ansiosa. La sofferenza dell’uomo che aveva urlato era così limpida da farla stare male.
“Credimi, avrai presto la tua risposta. Ma ora sarei felice se potessimo continuare la discussione. Hai visto l’abito in vetrina mentre passeggiavi con Miguel, non è vero?”
La sua voce aveva di nuovo assunto quel caldo tono suadente, e Karen fu incoraggiata a continuare.
“Sì, mi sono fermata ad ammirare il vestito, e Miguel mi ha cinta a sé, dicendomi che, se avessi voluto, sarebbe stato mio. Poi mi ha baciata.”
“È stato allora che la commessa ha tolto l’abito dalla vetrina, dandolo al cliente nascosto dal manichino sino ad un attimo prima, giusto?”
Karen abbassò di nuovo lo sguardo. Non riusciva a capacitarsi di ciò che aveva fatto. Una lacrima scese sulla sua guancia, e per un istante, sul volto del giovane, parve apparire un’espressione di sollievo.
“Lo stava comprando per me. Per scusarsi, dato che io mi sarei persa la festa di nostro figlio per via del lavoro. Ho aperto gli occhi, mentre stavo ancora baciando Miguel, e l’ho visto. Mi fissava impietrito dalla vetrina.”
“Per anni hai finto lavori, convegni, tutto per stare con altri uomini, mentre lui accudiva vostro figlio. Mi dispiace…”
Di nuovo quelle parole, stavolta legate ad una frase dopo la quale non si aspettava altro che insulti. Se quel giovane era davvero nell’auto, sarebbe stato più normale essere sollevati, apprendendo che schifo di essere umano era morto a causa sua. Invece continuava a scusarsi…
“Forza, continua.”
“È uscito fuori, il vestito in mano, la commessa dietro lui che sbraitava sull’articolo non pagato, ma lui non sentiva. Mi fissava con un disprezzo infinito. Non ha degnato Miguel di un solo sguardo, non ha detto una singola parola. Mi ha gettato addosso l’abito e si è voltato attraversando la strada.”
Karen fece una pausa. Non riusciva più a trattenere le lacrime. Aveva anteposto tutto nella vita alla sua famiglia. Non passava giorno in cui non la ritenesse un errore, un peso. Quanti uomini aveva avuto negli ultimi cinque anni? E Robert, lui, per tutto quel tempo, non aveva visto altro che una vittima in lei, una madre separata dal figlio e costretta a mantenere il marito.
“Ha venduto l’orologio di suo padre, per quell’abito. È giusto che tu lo sappia.”
Avrebbe preferito non saperlo. Quell’oggetto era quanto di più prezioso suo marito possedesse, un gioiello che sarebbe dovuto diventare il lascito per suo figlio. Sacrificato alla colpa nei confronti della moglie.
“L’hai inseguito, giusto? Non hai guardato, non hai pensato, sei solo corsa in mezzo alla strada.”
“Sì. E sei arrivato tu.”
Il giovane la guardò leggermente divertito. Karen tornò a meravigliarsi delle strane reazioni che il suo interlocutore mostrava nei momenti più inaspettati.
“Ti sbagli, mia cara. L’uomo che ti ha investito si chiama Bryan Howesly. Ha una frattura al braccio e un paio di costole rotte, ma se la caverà. Spero solo che quanto successo, un giorno, non lo conduca qui.”
La donna, certa delle sue intuizioni sino ad un attimo prima, era ormai in preda alla confusione. Era certa di stare parlando con il suo defunto assassino, un ragazzo sbandato, morto dopo averla investita nel pieno centro della città.
“Ma come puoi non essere…chi cazzo sei allora!?”
Karen iniziava ad essere visibilmente irritata. Stava per tornare ad inveire contro il giovane, quando nuove urla giunsero da luoghi lontani e vicini.
“Ti prego…quale dio può farci questo!”
“Il tempo sta per scadere, Karen. Come ho già fatto innumerevoli volte nella mia esistenza, non ho potuto far altro che cercare di alleviare le tue pene, renderti consapevole dei tuoi errori. Quanto ciò sarà utile, dipenderà da te. Ti prego, cerca, se puoi, di perdonarmi. Non ho mai voluto trascinarvi qui…”
Ormai si era decisamente persa. Di cosa stava parlando quello strano ragazzo?
“L’hai detto anche prima, più volte. Cosa ti devo perdonare? Non ti ho mai visto in tutta la mia vita, cosa mi hai fatto per doverti scusare?”
“Vi amo, vi ho sempre amati. E pensavo che fosse giusto rendervi più simili a noi. Credevo che il Padre sbagliasse, che il figlio potesse eccellere nel suo fallimento. Che presunzione!”
Ancora una lacrima rigò il suo volto, mentre la sua bocca si apriva in una nuova risata, triste e opprimente come mai Karen ne aveva sentite.
“Vi aveva creati felici, ignoranti, deboli. Dei bambini. Voleva farvi crescere, voleva darvi il tempo di apprendere. Io credevo solo che non fosse capace di fare altro. Vi diedi la capacità di discernere il bene e il male, la comprensione di ciò che vi circondava. Fu come dare una pistola ad un bimbo spiegandogli cosa è ma non di non usarla mai, se non in pericolo di vita. Odio, violenza, guerra. Avevo scatenato un orrore indefinibile nel mondo e nel cuore delle creature che amavo. Così meritai una punizione.”
Karen lo fissava allibita. Lo avrebbe preso certamente per un folle, se non si fosse trovata nel bel mezzo di un discorso in un luogo oltre la vita. Nel frattempo, poco lontano dalla panchina nel nulla, iniziarono a danzare oscure ed informi ombre. La donna le notò, e si rannicchiò vicino al ragazzo. Erano agghiaccianti.
“Stiamo per arrivare. Puoi perdonarmi? Puoi perdonare il folle che ha trascinato un’intera specie nella sua personale punizione?”
“Di cosa stai parlando!? Dove stiamo arrivando!?”
“Non l’hai ancora capito? A questo serviva il rimorso. Chi non si pente non tollera la sofferenza. Ecco a cosa ti ha portato la conoscenza che vi ho dato. Ecco l’Inferno!”
Davanti a Karen si spalancò l’orrore. Ammassi neri e informi sembrano confondersi con carni lacerate, volti di donne e uomini urlanti. Creature al di là delle più oscene fantasie inghiottivano e martoriavano ammassi di gente che gridava pietà. Alcuni vagavano nell’orrore lambiti appena dall’ombra e dal sangue.
“O mio dio!”
Karen era stravolta. Il suo abito scomparve, lasciandola nuda in quella landa di sofferenza. Il giovane al suo fianco guardava dritto avanti a sé, lasciando trasparire nei suoi occhi un dolore che non aveva pari neppure in quel luogo.
“C’è una cosa che voi umani non avete mai compreso. L’Inferno non è la vostra punizione, non è il castigo per i vizi dell’anima. L’Inferno è il mio tormento. E’ la condanna ad osservare eternamente i frutti del mio errore, ovvero la sofferenza di chi più amo. Parlo con ogni anima che giunge qui, prego che si pentano, che provino rimorso. Solo così possono sperare di non perdersi nell’ombra.”
Indicò le figure che si trascinavano lente. Si erano fatte vicine, e sembravano puntare verso lui e Karen. Quest’ultima, pur in preda al panico, rivolse la parola al suo compagno di viaggio.
“Mi stai dicendo che sei il diavolo?”
“Mi avete dato molti nomi, e quello è uno di essi. Il tentatore, il maligno, colui che gode della sofferenza umana, e che regna col ghigno negli inferi. Eccomi, Karen, guarda il glorioso e potente Satana! Osserva la sua gioia nel torturare le sue vittime! Guarda come gode del tuo tormento!”
Si accasciò al suolo, piangendo. Le anime pentite avevano ormai raggiunto Karen, che, lentamente, iniziò ad allontanarsi da lui.
“Perdonami, ti prego. Non ho potuto fare altro per te. Non ho potuto fare altro per nessuno.”
Immobile fissò la donna, finché questa non fu oltre il suo sguardo.
Jacob era stupito. C’era solo bianco intorno. Non riusciva a ricordare cosa stesse facendo prima di giungere in quel luogo.
“Gli hanno sparato!”
Da dove era giunta quella voce? Si voltò, cercando l’origine, ma l’unica cosa che vide fu una strana panchina, occupata da una giovane, bionda, pallida, bellissima e triste.
“Vieni a sederti Jacob. Assapora l’ultima eco. Dobbiamo parlare.Last edited by Majin Broly; 16 June 2010, 21:05.
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